L'abbraccio impossibile di Ersilia Caruso

Quella di Caruso Ersilia è una storia drammatica, che ci piace raccontare per l’essere diventata leggenda grazie alla rappresentazione artistica dello scultore Vicentino Michetti, posta nel 1987 in uno dei posti più iconici d’Abruzzo: Campo Imperatore nei pressi del bivio per Fonte Vetica.

Nella scultura un uomo avanza nella bufera di neve con un bambino sulle spalle e uno per mano insieme al loro cane pastore, piegati nel camminare per vincere la forza del vento. Dall’altra parte, di fronte a loro, una donna, Ersilia appunto, che tende le braccia verso il marito e i figli.

La tragedia rappresentata nella scultura si consumò il 18 ottobre 1919, durante un estremo tentativo di fuga da una tormenta di neve in quota (non nella zona in cui si trova la scultura, ma in località Valle Maniere, poco sotto al lago Racollo, alle pendici occidentali della Cima di monte Bolza che guarda la valle del Tirino), in territorio appartenente ai comuni di Calascio e Santo Stefano di Sessanio.

La famiglia Pupi, residente a Roio Piano, era formata “da Nunzio, di anni 41, capofamiglia di professione pastore; dalla moglie Ersilia Caruso, contadina, nata a Capestrano 35 anni prima; dal figlio di nome Idolo, di anni 12, di professione pastore; dal secondogenito di nome Alfredo, di anni 11, anch’esso pastore.

In un autunno mite, il pastore Pupo Nunzio decise di non andare subito verso i pascoli più idonei come quelli della Puglia, per restare ancora un po’ accanto alla sua famiglia. Si racconta che il pastore avesse portato con sé al pascolo i due figlioletti per trascorrere con loro gli ultimi giorni della sua permanenza prima di dare il via alla transumanza.

Quel mattino nulla faceva presagire quel che sarebbe accaduto di lì a poco. Il bel tempo aveva permesso ai pastori di ritardare il ritorno a valle ma intorno alle undici si alzò un vento fortissimo e in breve nuvole minacciose giunsero da tutte le direzioni e all'improvviso iniziò una abbondante nevicata come mai se ne ricordassero per quel periodo. Quella bufera anticipava un rigido inverno. Fu purtroppo vano per Pupo Nunzio il tentativo di salvare se stesso, i suoi figli e il gregge. Giunti sotto il monte Bolza non furono più in grado di proseguire nella neve divenuta rapidamente troppo alta ed il gelido vento fece il resto.

Tutti gli uomini di famiglia, compreso il loro affezionato cane e le cinquemila pecore, morirono nella bufera ed i loro corpi furono rinvenuti il 14 novembre 1919 allo sciogliersi della neve arrivata in anticipo.

Ersilia, non vedendo rientrare il marito e i suoi figli, disperatamente cercò di raggiungerli, e si mise in cammino da sola, senza curarsi del grandissimo rischio a cui si stava sottoponendo. Ma non morì nella bufera alla ricerca dei familiari (come racconta la leggenda), sopravvisse alle difficili ricerche, ma non superò mai lo straziante dolore che ne seguì: morì il 12 giugno 1920 a L’Aquila, presso l’Ospedale Civile.

Oggi chiunque percorra la Piana di Campo Imperatore, in località Colle Caciaro a 1562 mt di quota non può non scorgere le statue e le braccia di Ersilia, rivolte verso i suoi cari nel desiderio di un abbraccio impossibile.

Questo nucleo familiare rappresenta un enorme simbolo di rispetto verso quelle vite che si sacrificarono al duro lavoro sui monti e la scultura di pietra bianca posta a futura memoria è un eterno messaggio di riflessione, emblema di sofferenza e forza umana spezzate solo dall'impeto irresistibile di queste montagne.  

 

ersilia

(da Appennini.tv)

Caruso Ersilia

 


Il sacrificio del Vice Brigadiere Iafolla

600px Capestrano Iafolla Giovanni DanteEra nato a Capestrano il 1° febbraio del 1908, Giovanni Dante Iafolla, aveva conseguito all’età di 18 anni la licenza liceale presso il collegio de L’Aquila e si era arruolato nell’Arma dei Carabinieri l’8 maggio del 1926 presso la Legione Allievi di Roma.

Prestò servizio inizialmente a Roma e Perugia fino a quando, ammesso alla scuola Centrale Carabinieri Reali a Firenze, venne promosso Vice Brigadiere e destinato al Comando della stazione dei Carabinieri Reali di Sulmona.

Il giovane ed onesto Vice Brigadiere Iafolla avrebbe sicuramente avuto una lunga ed onorata carriere nell’Arma, e la sua desiderata ed infine raggiunta, ammissione al corso di allievi ufficiali, ne era la chiara evidenza.

Ma il senso del dovere ed il coraggio del giovane Giovanni, uniti ad uno sfortunato destino, consegnarono il Vice Brigadiere agli onori del sacrificio la notte del 16 gennaio 1934: era una notte fredda a Pratola Peligna, trascorsa insieme al Carabiniere Tardiani e al Comandante della Polizia Municipale locale, alla ricerca di un pericoloso delinquente. Un violento colpo di pistola, sparato a bruciapelo dal delinquente sorpreso dal Vice Brigadiere, lo raggiunge all’addome, ma non basta a fermarlo; l’eroico Vice Brigadiere continua il suo inseguimento, fino a quando, sfinito dal dolore, cade a terra esanime. Operato d’urgenza, muore il giorno dopo presso l’Ospedale di Sulmona.

Il 31 gennaio del 1934 l’abbraccio del suo popolo si manifesta in piazza a Capestrano, con un solenne tributo di affetto al giovane Giovanni Dante. Il  10 febbraio del 1935 gli viene conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria, consegnata al padre, con la seguente motivazione:

“Di notte, incaricato dell’arresto di un pregiudicato, autore di diversi furti, si presentava con dipendente all’ingesso della casa della di lui amante, ed a costei, affaciatasi alla finestra, faceva invito ad aprire, intimando poscia risolutamente al ricercato, che era comparso sulla soglia, di alzare le mani che dissimulavano dietro alla schiena. Fatto segno dal catturando da due colpi di rivoltella di cui uno lo feriva gravemente all’addome, si slanciava animosamente all’inseguimento del delinquente, che si era dato alla fuga continuando a sparare all’impazzata, e rispondeva, per quanto inutilmente, al suo fuoco. Dopo breve tratto, però, grondante di sangue, cedeva sfinito, ma, stringendo ancora in pugno la pistola, incitava il dipendente che lo seguiva ed altri occorsi, a continuare l’inseguimento.

Durante la grave operazione chirurgica cui fù sottoposto, dimostrava forza d’animo e stoicismo ammirevoli, dichiarandosi lieto di potersi sacrificare per la patria.

Bell’esempio di sprezzo della vita e di cosciente sacrificio”.

Giovanni aveva solo 26 anni e chissà quanti ancora da vivere se lo spirito di sacrificio, l’onestà, la determinazione ed il coraggio non lo avessero portato quella notte a lottare per ciò che più di ogni cosa riteneva necessaria: la sicurezza della sua gente.

La sua lotta, solo apparentemente persa, fu un esempio di giustizia, che agli occhi dei suoi compaesani e dell’Italia intera, lo consegnò per sempre agli onori dei giusti vincitori.

A lui è dedicata la Stazione dei carabinieri presso la piazza centrale del borgo di Capestrano nei pressi del castello Piccolomini. Se ci si trova nelle sue vicinanze, vale la pena ancora offrirgli un pensiero ed una piccola sosta ai piedi della sua lapide commemorativa.


Il riscatto di Filippo e Edoardo Corsi

Filippo Corsi nasce a Capestrano il 1° marzo del 1870. Repubblicano mazziniano collabora attivamente al periodico «La Bandiera della Democrazia Abruzzese», settimanale aquilano nato come organo della democrazia locale. Insieme a tanti altri repubblicani, anarchici e socialisti paga con l'esilio in Svizzera il suo attivismo politico e sindacale.

Tornato in Italia diviene presto uno dei principali dirigenti della Federazione Repubblicana Abruzzese costituita a L’Aquila. Grazie al suo impegno e alla sua personalità porta avanti una serie di battaglie operaie presso lo stabilimento industriale di Bussi, che fin dalle origini si contraddistinse per il duro sfruttamento: “frequenti, in quegli anni, erano infatti gli infortuni, i feriti e le vittime per gravissime responsabilità del datore di lavoro”.

Nel giugno del 1900 viene eletto deputato al Parlamento nelle liste del partito repubblicano, ma in circostanze misteriose, poco più che trentenne, scompare la mattina del 21 maggio 1903 nella città di Massa.

Si legge negli atti parlamentari che alla stazione lo aspettavano le associazioni popolari con la musica e le bandiere ma nel tragitto dalla stazione in città l’onorevole Corsi, accusando un malore, “cessava di vivere per paralisi cardiaca”.

Così lo ricorda una targa celebrativa in Piazza della Libertà a Pratola Peligna:

"Trasse dalle idealità repubblicane, dall'affetto per i lavoratori, la fede e la forza per combattere il dominio delle oligarchie locali, per ridestare alla coscienza dei nuovi destini il popolo di queste terre".

Gli “ideali” sopravvivono sempre agli uomini che hanno lottato per difenderli, così per Filippo Corsi la sopravvivenza dei suoi valori avviene per mezzo dell’eredità più importante, i suoi quattro figli: Edoardo, di appena 7 anni, Giuseppe, Libertà ed Helvetia.

corsiEdoardo, primogenito di Filippo, nasce a Capestrano nel 1896, a ventuno anni già orfano di padre, è costretto a seguire il destino di molti paesani ed emigra in America con la madre, il patrigno e i fratelli.

Con loro, nello stesso anno, sbarcano in America 1 milione e 700 mila emigranti.

Edoardo, come tutti, segue le severe procedure di immigrazione di Ellis Island, in quarantena si sottopone alle rituali visite sanitarie nutrendosi di pane raffermo e prugne marce.

Ottenuto il lasciapassare, la famiglia Corsi trova casa nel quartiere di East Harlem da dove il giovane Edoardo comincia la sua personale corsa verso il riscatto.

Il cammino è durissimo: nel giro di pochi anni la madre, incapace di adattarsi alla nuova vita, torna in Italia si ammala e muore dopo soli tre anni.

Edoardo si iscrive comunque all’università, si laurea in legge e alterna lo studio ai lavori di lampionaio, fattorino, impiegato del telegrafo, fino a trovare lavoro nella Haarlem House come social worker (operatore sociale), nell’istituto dove lui stesso era riuscito con difficoltà a farsi accettare per terminare gli studi.

Nello stesso periodo inizia a scrivere di politica e di sociologia per riviste e giornali della città, così viene incaricato dalla Amministrazione americana di seguire il programma “Outlock” come inviato in Messico.

Edoardo fa bene il suo lavoro e l’Amministrazione decide di mandarlo in Italia nell’ambito del programma “World”.

Nel 1931 Edoardo Corsi, o Edward, come ora è chiamato da tutti, viene nominato dal Presidente degli Stati Uniti d'America Herbet Clark Hoover, Commissario dell’Emigrazione a Ellis Island.

Gian Antonio Stella scrive di lui: “fu una rivincita non solo per lui ma per tutti i milioni di italiani che, in quel 1931 di crisi economica seguita al crollo della Borsa, vivevano negli stati uniti ammaccati da decenni di xenofobia, sfociati in decine di linciaggi e nell’esecuzione nel 1927 di Sacco e Vanzetti”.

Edoardo Corsi si mantenne sempre lontano dall’ideologie politiche estreme, rimanendo sempre vicino solo ai sindacati operai e alle organizzazioni in lotta per i diritti dei lavoratori e del lavoro, in coerenza con l'ideale repubblicano appartenuto a quel padre che poteva rievocare solo nei più lontani ricordi di bambino. Edoardo e Filippo Corsi furono due “apostoli delle genti” che, partiti dal paese natìo, si donarono all’Italia e al mondo, con la forza e la determinazione tipica delle genti che con loro avevano condiviso l’età della adolescenza.

Nel 1935 Edoardo pubblica “All’ombra della Libertà. Cronaca di Ellis Island”, un libro difficile da digerire che si è rivelato tuttavia un vero successo editoriale.


L’omicidio del procuratore Gennaro Celli

Il 17 gennaio del 1895 era probabilmente una fredda giornata milanese, il procuratore generale del Re era seduto come di consueto alla sua scrivania, nel suo ufficio presso la Corte d’Appello di Milano. Senz’altro avrebbe continuato a svolgere il suo lavoro scrupoloso se non fosse stato interrotto dalla richiesta di una non decifrata supplica da parte di un certo Attilio Bellocchio.

Quando l’imboscata è vile risulta anche del tutto inaspettata, non è stato difficile quindi per il finto Attilio Bellocchio pugnalare il procuratore con un lungo coltello che portava nascosto nella manica del cappotto.

Gennaro Celli, raggiunto alla tempia e al collo, ebbe solo pochi minuti senza riuscire a proferire parola prima di perdere i sensi e morire.

Cosa avrà pensato in quei momenti il procuratore non lo sapremo mai, forse in quegli ultimi istanti potrebbe essere tornato col pensiero alla pace del suo paesino e alla sua valle a Capestrano dove era nato il 26 gennaio di sessantasei anni prima.

Così si legge nel dispaccio di condoglianze, che a nome di Sua Maestà Umberto I, inviava il generale Ponzio-Vaglia, alla vedova Maria Camerini:

“L'Augusto Sovrano si associa alle universali testimonianze d'affetto e di onore che vengono date all'illustre estinto, che, soldato della legge, moriva per la difesa della Società e della giustizia. S. M. il Re manda a Lei ed alla Sua famiglia le più affettuose condoglianze in segno di vivissima simpatia e di costante benevolenza”.

Dall’archivio storico de La Stampa del 20 gennaio 1895, alla pagina 2, l’inchiesta giornalistica dell’epoca su “Nuovi particolari sull’omicidio del procuratore Gennaro Celli”.


Ignazio Cerasoli, il professore di tutti

Ignazio cerasoli nasce a Capestrano nel 1849. Esperto professore, fu autore di numerosi pubblicazioni didattiche e collaboratore di importanti giornali e riviste; fondò e diresse per oltre 16 anni la rivista quindicinale “Il Gran Sasso d’Italia” e “Il Corriere Scolastico”, rivista rivolta all’insegnamento delle tecniche di lettura e di scrittura.

Ignazio Cerasoli contribuì alla nascita di biblioteche popolari e scolastiche, di scuole di lavoro manuale e di agraria, perseguendo sempre lo stesso caparbio obiettivo: diffondere nelle genti le fondamentali nozioni di alfabetizzazione laddove la povertà rendeva l’istruzione un lusso per pochi.

Ma Ignazio Cerasoli fu anche fine scrittore collocato tra realismo e decadentismo nel ricco panorama letterario e artistico dell'Abruzzo dell'Ottocento. Trasferitosi a Castellamare Adriatico (l’odierna Pescara) scrisse un volume di "Novelle Abruzzesi", che assunse le caratteristiche del racconto storico e fu pubblicato a Milano nel 1880.

Sebbene considerato un autore non di primissimo piano, Cerasoli contribuì a fare la storia dello straordinario periodo artistico letterario abruzzese insieme a personalità come Gabriele D'annunzio, Basilio Cascella e Francesco Paolo Michetti. Ma dai salotti buoni della realtà pescarese di fine ottocento, Cerasoli, non smise di perseguire il suo obiettivo più nobile: combattere l’analfabetismo in una terra dove con fatica spesso si riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena.


Dalmazio Santini: Nemo propheta in patria (sua)

Nato a Capestrano nel 1923, emigra negli Stati Uniti a 14 anni. A New York frequenta le scuole pubbliche ed è arruolato nelle forze armate per partecipare alla seconda guerra mondiale.

Dopo la guerra studia composizione al Manhattanville College e il Mannes College, realizzando così quel sogno che aveva portato con sé attraverso l’oceano dal piccolo borgo natìo: diventare un musicista.

Ma Dalmazio Santini non è un musicista qualunque: compositore raffinato, innovativo e delicato, scrive musica per pianoforte ed opere per fisarmonica che saranno eseguite in tutto il mondo. Gran parte della sua produzione è musica sacra spesso con testi latini. La sua composizione più conosciuta è l’Ave Maria, interpretata dal duo di vocalist Mary Mancini e il fisarmonicista Mario Tacca. ll suo “Canticum Angelicum” è eseguito dall'Orchestra del Teatro dell'Opera San Carlo di Napoli e il suo “Magnificat” è selezionato al festival di Roma “Incontri di Musica Sacra Contemporanea” del 1992.

Dal cognome tipicamente capestranese, Santini muore il 4 ottobre del 2001. Di questo raffinato musicista resta in Italia un vago ricordo e non la fama che meriterebbe effettivamente e che il mondo intero gli riconosce.

dalmazio santini